19 giugno 2025
Solennità del Corpus Domini, Anno C
Sorelle e fratelli carissimi,
il Signore vi dia pace!
Il primo suggerimento per la nostra riflessione lo troviamo nell’indicazione dell’Evangelista sulla fame della gente. Sappiamo bene che al termine di una giornata calda, in una zona desertica, la necessità di ristoro e di cibo è reale. Vi è dunque un bisogno effettivo di ristoro, e vi è al contempo anche la preoccupazione per una folla numerosa. L’evangelista si premura di dirci che c’erano circa cinque mila uomini (Lc 9,14).
Dall’altro lato vediamo la povertà dei discepoli, che non hanno altro se non cinque pani e due pesci (Lc 9,13). Sfavorevoli sono anche le condizioni in cui tutto questo accade: è ormai sera, e siamo in una zona desertica (Lc 9,12).
In breve. La folla è stata per un’intera giornata al seguito di Gesù, nel caldo, senza mangiare, stanca e affamata, ma alla sera, nonostante tutto ciò, invece di tornarsene a casa, erano ancora tutti li con lui.
Mi stupisce sempre questo dettaglio e mi chiedo se noi siamo nella stessa condizione di quella folla: davvero, come quei cinquemila, sappiamo mettere da parte i nostri bisogni materiali e cercare la Sua presenza, di ascoltare la Sua voce, di mangiare del Suo pane, che è Lui stesso? Di cosa abbiamo veramente fame? Di quale cibo siamo alla ricerca? Non c’è una sola fame, lo sappiamo bene. Si possono avere tante forme di fame. Qual è, dunque, la fame che ci caratterizza? Cosa nutre la nostra vita cristiana? Quanto l’Eucarestia sostiene la nostra vita di fede? Di cosa siamo alla ricerca?
La soluzione proposta dai discepoli alla fame della folla è che la gente vada via, e che ognuno cerchi da sé e per sé ciò che può saziare la propria fame (Lc 9,12). La risposta di Gesù, invece, è esattamente opposta e ci introduce nel cuore del mistero eucaristico: la gente rimanga (Lc 9,13), e i discepoli stessi diano da mangiare a tutti. Non, dunque, che ciascuno faccia da sé, ma che i discepoli condividano quello che hanno a tutta quella folla! Un invito umanamente impossibile da realizzare. Invece è proprio ciò che accade. Partendo dal poco esistente messo a disposizione, Gesù compie il miracolo della moltiplicazione, donando pane a sufficienza per tutti.
Quando si parla di fame, in genere, siamo soliti pensare a popolazioni lontane da noi, a qualcosa di teorico. Mai avremmo pensato che ancora oggi, qui tra noi, fossimo costretti a parlare di fame come qualcosa di reale, che tocca la vita della nostra gente. Penso a Gaza, ovviamente, ma non solo. Alle tante situazioni di povertà che il conflitto ha creato, e che rende la vita di troppe famiglie estremamente dura.
Viviamo un tempo di fame reale, dunque. Ed unita ad essa vi è la fame di giustizia, di verità, di dignità. Anche queste ultime sembrano parole che appartengono ad un mondo lontano dal nostro, che nulla hanno a che fare con la nostra vita reale.
E di fronte alla tragica situazione che stiamo vivendo, forse anche noi abbiamo la stessa tentazione dei discepoli. Congedarsi. Rinunciare. Gettare la spugna. Smettere di sperare e di credere che sia possibile placare la nostra fame, che qualcuno possa consolare il nostro cuore assetato di giustizia e dignità. Che questo conflitto non potrà mai cambiare la nostra vita. Che non esista per noi qui la possibilità di una vita dignitosa.
La risposta di Gesù ai discepoli, però, è chiara e indica ciò che dovrà caratterizzare la vita del cristiano in ogni tempo. Ed è quindi la risposta anche per noi oggi, anche per noi in Terra Santa: “Date voi stessi da mangiare” (13).
Fare dono di sé, diventare noi stessi eucarestia. Stare con Cristo ci rende capaci di abitare la nostra povertà, ce la fa vivere come una possibilità di condivisione e di comunione, di affidamento e di dono. Ed è possibile anche per noi, qui, oggi, innanzitutto per noi pastori. Noi non siamo strumenti neutri del sacramento, canali indifferenti attraverso i quali distribuiamo l’eucarestia ai fedeli e basta. Date voi stessi da mangiare, è un invito a diventare per primi noi stessi “eucaristici”, cioè persone che fanno dono di sé, e la cui vita è un continuo rendere lode a Dio. Non ci viene chiesto di condividere la nostra conoscenza, ma la nostra vita, nella quale risplenda l’opera di Dio. Solo così potremo dare forma precisa e riconoscibile al nostro gregge, a tradurre nella vita delle comunità ciò che celebriamo nel mistero.
E in questo tempo di conflitti e guerre, la risposta di Gesù ai discepoli è un invito alla nostra comunità ecclesiale a tradurre in vita ciò che celebriamo nell'Eucaristia. Significa sapersi fare dono, essere solidali l’uno con l’altro, continuare – nonostante tutto – a costruire relazioni, aprire orizzonti, dare fiducia, avere il coraggio di essere inclusivi, cioè di accogliere l’altro, quando invece tutto parla del contrario. Significa essere capaci di condivisione e di vita, di non rinunciare mai a sperare. Nonostante le tante difficoltà esterne e interne, di non congedarsi dalla vita ecclesiale, non ripiegarsi su di sé, ma al contrario e nonostante tutto, credere sempre che Gesù, e solo Lui, può trasformare il poco che abbiamo, anche la nostra poca fede, in abbondanza di vita per tutti.
Da soli non lo possiamo fare. Non siamo capaci di tanto. Solo Gesù può darci questa forza e aprirci a questa libertà. E solo nell’eucarestia, nell’incontro con Cristo morto e risorto che si dona a noi, possiamo attingere questa capacità.
Gesù in questo brano ci lascia anche un’altra indicazione. Chiede di dividere i presenti in piccoli gruppi: non più dunque una folla anonima, ma piccole comunità, ben definite e riconoscibili, dove sia più facile la condivisione e la reciprocità.
Ci dice che l’eucarestia è il centro della comunità, ma anche che l’eucarestia da forma alla comunità. Senza eucarestia non c’è comunità. L’eucarestia crea comunità solidali, dove ci si sostiene a vicenda. “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune… dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno… e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore” (Atti 2, 44-46).
Uno dei problemi della nostra Chiesa oggi è proprio l’anonimità delle nostre comunità, più simili alla folla che ai gruppi di cinquanta stabiliti da Gesù nel nostro brano. Non ci si conosce, e quindi nemmeno si può condividere la vita. Il vangelo ci invita a dare un volto e un’identità chiara alle nostre comunità, che si costruiranno con la nostra familiarità con Cristo, più che con le nostre attività sociali o pastorali.
Il brano si conclude con un ultimo elemento: si tratta di ciò che avanza, che riesce a riempire ben dodici ceste (Lc 9,17). Lì dove ci si arricchisce vicendevolmente con il poco che si ha, allora si fa esperienza di essere veramente ricchi, di essere nell’abbondanza, di avere più di quanto si osava sperare.
Comunità formate dall’Eucarestia, saranno anche comunità ricche, dove non mancherà nulla e, nonostante la povertà dei mezzi, sapranno far risplendere la presenza di Dio, la nostra vera ricchezza.
Che si compia allora ancora una volta il miracolo. Che il Signore moltiplichi i nostri pochi pani e pesci. Ma perché il miracolo si compia, è necessario ravvivare il desiderio per Gesù, avere fame di Lui, essere disposti a mettere a disposizione la nostra povertà, cioè accettare di perdere anche quel poco che abbiamo, mettendo tutta la nostra vita, senza riserve, nelle mani del Pastore Supremo. Solo lui può trasformare la nostra fragile umanità in strumento di salvezza.
Possa il Pane Celeste nutrire e dare forza al cammino della nostra Chiesa di Terra Santa, e sostenerci nelle diverse nostre vicissitudini, con l’intercessione della Vergine Madre della Chiesa e Madre nostra. Amen.
+Pierbattista